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Platone. Il mito della caverna
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Platone. Il mito della caverna
“IL MITO DELLA CAVERNA” DI PLATONE DESCRIVE LA SUA CONCEZIONE DEL RAPPORTO TRA CONOSCENZA SENSIBILE ED INTELLETTIVA
Nato ad Atene nel 428-427 a. c., PLATONE, il cui vero nome era ARISTOCLE, fin da giovane vedeva, nella vita politica, il proprio ideale.
Nell’intento di prepararsi, attraverso la filosofia, alla vita politica, PLATONE incontrò e frequentò SOCRATE. Le esperienze amare e deludenti in campo politico, (vedi la condanna a morte di SOCRATE, la persecuzione politica, le tirannie dei governi di quel periodo), portarono lo stesso PLATONE a dedicarsi allo studio filosofico. PLATONE morì nel 347 a.c. ad Atene, dopo essere rimasto alla direzione dell’ “ACCADEMIA” da lui stesso fondata.
IL PENSIERO DI PLATONE
Sintetizzando, la tesi di Platone è la coincidenza della vera filosofia con la vera politica . Solo se il politico diventa “filosofo” può costruirsi la vera “Città”, ossia lo Stato veramente fondato sul supremo valore della giustizia e del bene. Per Platone costruire la “Città” vuol dire conoscere l’uomo ed i suo posto nell’universo.
Infatti, dice Platone, lo “Stato non è se non l’ingrandimento della nostra anima, una sorta di gigantografia che riproduce in vaste dimensioni, quello che c’è nella nostra mente”. La Città perfetta ha bisogno di tre classi sociali:
1. Quella dei contadini, artigiani e mercanti in cui prevale la virtù della “temperanza”, che è una specie di ordine, di dominio e di disciplina dei piaceri, dei desideri ed anche la capacità di sottomettersi alle classi superiori.
2. La classe dei custodi e difensori della Città, costituita da uomini in cui prevale la forza irascibile dell’anima, dotati di mansuetudine e fierezza, fortezza e coraggio. I custodi dovranno vigilare, non solo sui pericoli che possono venire dall’esterno, ma anche su quelli che vengono dall’interno. Dovranno evitare che nella prima classe si produca troppa ricchezza o troppa povertà.
3. La classe dei “reggitori” o Governanti, che dovranno essere coloro che avranno saputo amare la Città più degli altri e avranno saputo compiere il loro compito con zelo e che soprattutto avranno saputo conoscere e contemplare il “bene”.
Nei governanti predomina quindi, l’anima razionale e la loro virtù specifica è la “sapienza”.
Il mito della caverna di Platone è probabilmente la più conosciuta tra le sue allegorie, metafore e parabole. Non si tratta di un mito nel senso proprio del termine, ma la tradizione ha impropriamente tramandato il racconto come tale. L’allegoria è raccontata all’inizio del libro settimo de La Repubblica (514 b – 520 a).
Si immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dall’infanzia, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro.
Si pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme fuoco e che, tra il fuoco ed i prigionieri, corra una strada rialzata. Lungo questa strada sia stato eretto un muricciolo, lungo il quale alcuni uomini portano forme di vari oggetti, animali, piante e persone. Le forme proietterebbero la propria ombra sul muro e questo attrarrebbe l’attenzione dei prigionieri. Se qualcuno degli uomini che trasportano queste forme parlasse, si formerebbe nella caverna un’eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che questa voce provenga dalle ombre che vedono passare sul muro.
Mentre un personaggio esterno avrebbe un’idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (si ricordi che sono incatenati fin dall’infanzia), sarebbero portati ad interpretare le ombre “parlanti” come oggetti, animali, piante e persone reali.
Si supponga che un prigioniero venga liberato dalle catene e sia costretto a rimanere in piedi, con la faccia rivolta verso l’uscita della caverna: in primo luogo, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del fuoco ed egli proverebbe dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muretto gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati quegli oggetti e gli fosse indicata la fonte di luce, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, preferirebbe volgersi verso le ombre.
Allo stesso modo, se il malcapitato fosse costretto ad uscire dalla caverna e venisse esposto alla diretta luce del sole, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a vedere alcunché. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s’irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo.
Volendo abituarsi alla nuova situazione, il prigioniero riuscirebbe inizialmente a distinguere soltanto le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell’acqua; solo con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti stessi. Successivamente, egli potrebbe, di notte, volgere lo sguardo al cielo, ammirando i corpi celesti con maggior facilità che di giorno. Infine, il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell’acqua, e capirebbe che:
Resosi conto della situazione, egli vorrebbe senza dubbio tornare nella caverna e liberare i suoi compagni, essendo felice del cambiamento e provando per loro un senso di pietà: il problema, però, sarebbe proprio quello di convincere gli altri prigionieri ad essere liberati. Infatti, dovendo riabituare gli occhi all’ombra, dovrebbe passare del tempo prima che il prigioniero liberato possa vedere distintamente anche nel fondo della caverna; durante questo periodo, molto probabilmente egli sarebbe oggetto di riso da parte dei prigionieri, in quanto sarebbe tornato dall’ascesa con “gli occhi rovinati”. Inoltre, questa sua temporanea inabilità influirebbe negativamente sulla sua opera di convincimento ed, anzi, potrebbe spingere gli altri prigionieri ad ucciderlo, se tentasse di liberarli e portarli verso la luce, in quanto, a loro dire, non varrebbe la pena di subire il dolore dell’accecamento e la fatica della salita per andare ad ammirare le cose da lui descritte.
Nato ad Atene nel 428-427 a. c., PLATONE, il cui vero nome era ARISTOCLE, fin da giovane vedeva, nella vita politica, il proprio ideale.
Nell’intento di prepararsi, attraverso la filosofia, alla vita politica, PLATONE incontrò e frequentò SOCRATE. Le esperienze amare e deludenti in campo politico, (vedi la condanna a morte di SOCRATE, la persecuzione politica, le tirannie dei governi di quel periodo), portarono lo stesso PLATONE a dedicarsi allo studio filosofico. PLATONE morì nel 347 a.c. ad Atene, dopo essere rimasto alla direzione dell’ “ACCADEMIA” da lui stesso fondata.
IL PENSIERO DI PLATONE
Sintetizzando, la tesi di Platone è la coincidenza della vera filosofia con la vera politica . Solo se il politico diventa “filosofo” può costruirsi la vera “Città”, ossia lo Stato veramente fondato sul supremo valore della giustizia e del bene. Per Platone costruire la “Città” vuol dire conoscere l’uomo ed i suo posto nell’universo.
Infatti, dice Platone, lo “Stato non è se non l’ingrandimento della nostra anima, una sorta di gigantografia che riproduce in vaste dimensioni, quello che c’è nella nostra mente”. La Città perfetta ha bisogno di tre classi sociali:
1. Quella dei contadini, artigiani e mercanti in cui prevale la virtù della “temperanza”, che è una specie di ordine, di dominio e di disciplina dei piaceri, dei desideri ed anche la capacità di sottomettersi alle classi superiori.
2. La classe dei custodi e difensori della Città, costituita da uomini in cui prevale la forza irascibile dell’anima, dotati di mansuetudine e fierezza, fortezza e coraggio. I custodi dovranno vigilare, non solo sui pericoli che possono venire dall’esterno, ma anche su quelli che vengono dall’interno. Dovranno evitare che nella prima classe si produca troppa ricchezza o troppa povertà.
3. La classe dei “reggitori” o Governanti, che dovranno essere coloro che avranno saputo amare la Città più degli altri e avranno saputo compiere il loro compito con zelo e che soprattutto avranno saputo conoscere e contemplare il “bene”.
Nei governanti predomina quindi, l’anima razionale e la loro virtù specifica è la “sapienza”.
Il mito della caverna di Platone è probabilmente la più conosciuta tra le sue allegorie, metafore e parabole. Non si tratta di un mito nel senso proprio del termine, ma la tradizione ha impropriamente tramandato il racconto come tale. L’allegoria è raccontata all’inizio del libro settimo de La Repubblica (514 b – 520 a).
Si immaginino dei prigionieri che siano stati incatenati, fin dall’infanzia, nelle profondità di una caverna. Non solo le membra, ma anche testa e collo sono bloccati, in maniera che gli occhi dei malcapitati possano solo fissare il muro dinanzi a loro.
Si pensi, inoltre, che alle spalle dei prigionieri sia stato acceso un enorme fuoco e che, tra il fuoco ed i prigionieri, corra una strada rialzata. Lungo questa strada sia stato eretto un muricciolo, lungo il quale alcuni uomini portano forme di vari oggetti, animali, piante e persone. Le forme proietterebbero la propria ombra sul muro e questo attrarrebbe l’attenzione dei prigionieri. Se qualcuno degli uomini che trasportano queste forme parlasse, si formerebbe nella caverna un’eco che spingerebbe i prigionieri a pensare che questa voce provenga dalle ombre che vedono passare sul muro.
Mentre un personaggio esterno avrebbe un’idea completa della situazione, i prigionieri, non conoscendo cosa accada realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno (si ricordi che sono incatenati fin dall’infanzia), sarebbero portati ad interpretare le ombre “parlanti” come oggetti, animali, piante e persone reali.
Si supponga che un prigioniero venga liberato dalle catene e sia costretto a rimanere in piedi, con la faccia rivolta verso l’uscita della caverna: in primo luogo, i suoi occhi sarebbero abbagliati dalla luce del fuoco ed egli proverebbe dolore. Inoltre, le forme portate dagli uomini lungo il muretto gli sembrerebbero meno reali delle ombre alle quali è abituato; persino se gli fossero mostrati quegli oggetti e gli fosse indicata la fonte di luce, il prigioniero rimarrebbe comunque dubbioso e, soffrendo nel fissare il fuoco, preferirebbe volgersi verso le ombre.
Allo stesso modo, se il malcapitato fosse costretto ad uscire dalla caverna e venisse esposto alla diretta luce del sole, rimarrebbe accecato e non riuscirebbe a vedere alcunché. Il prigioniero si troverebbe sicuramente a disagio e s’irriterebbe per essere stato trascinato a viva forza in quel luogo.
Volendo abituarsi alla nuova situazione, il prigioniero riuscirebbe inizialmente a distinguere soltanto le ombre delle persone e le loro immagini riflesse nell’acqua; solo con il passare del tempo potrebbe sostenere la luce e guardare gli oggetti stessi. Successivamente, egli potrebbe, di notte, volgere lo sguardo al cielo, ammirando i corpi celesti con maggior facilità che di giorno. Infine, il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell’acqua, e capirebbe che:
« è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e suoi compagni vedevano. » | |
(Platone, La Repubblica, libro VII, 516 c – d, trad.: Franco Sartori) |
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