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L'enigma dei sacrifici umani
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L'enigma dei sacrifici umani
La notizia più recente e sensazionale riguarda la scoperta del centro politico e sacrale della città arcaica, la cosiddetta Domus regia: una struttura rettangolare di 345 metri quadrati, dotata di un vasto cortile. Uno degli aspetti più interessanti e delicati è senza dubbio il rinvenimento di due tombe d’infanti (quasi certamente due bambine), che Carandini interpreta come testimonianze di sacrifici umani connessi con la fondazione e con il successivo abbandono della dimora.
Connessioni tra sepolture umane anomale, interpretate come testimonianze di sacrifici, e le fasi di strutture che segnano trasformazioni importanti nella storia della Roma arcaica, emergono anche in altre aree recentemente esplorate. Si tratta di un fenomeno destinato a suscitare, da un lato, l’interesse e le polemiche degli specialisti, per le ipotesi che possono trarsi da quelle connessioni, dall’altro, la curiosità di un pubblico più largo, attratto dalla luce selvaggia e “primitiva” che la pratica del sacrificio umano proietta inevitabilmente sulla storia della “civilissima” Roma.
Il fenomeno appariva scabroso già agli antichi, che cercarono spesso di rimuoverlo o di normalizzarlo. Ma tra le pieghe delle fonti emerge con chiarezza che a Roma, come in quasi tutte le società antiche, l’uccisione di esseri umani era considerata un rito utile a placare gli dei. Si ha l’impressione che a una prima fase, in cui i sacrifici umani dovevano essere una pratica stabilmente incardinata nella religiosità civica, sia seguita una seconda fase, in cui a essa si ricorreva in momenti ritenuti particolarmente gravi per la vita della comunità. Era questo il caso del celebre sacrificio di una coppia di Greci e di una coppia di Galli, sepolti vivi nel Foro Boario. Il turbamento degli autori antichi è evidente nel racconto di Livio, che sente il bisogno di precisare che quel sacrificio era una pratica aliena dalla religiosità romana. Aveva evidentemente torto, visto che Plinio il Vecchio, pochi anni dopo, poteva affermare che le sepolture rituali di esseri umani erano un’esperienza che i Romani ripetevano ormai da 830 anni, vale a dire fin dai tempi della fondazione della loro città. Seppellire una coppia (maschio e femmina) significava propiziare lo sterminio rituale della stirpe che la coppia rappresentava. Il seppellimento di coppie di Galli e di Greci avrebbe dovuto quindi provocare l’annientamento di popolazioni ritenute pericolose per la sicurezza della “terra Italia”. Il sacrificio rimandava quindi a un’idea ristretta del territorio italico, in quanto non ancora circoscritto dalle Alpi, ma dagli Appennini: al di là degli Appennini si trovavano appunto Galli e Greci.
Alla metà di maggio, i Romani si recavano in processione al ponte Sublicio, dove le Vestali, con un rito solenne, gettavano nel Tevere 27 fantocci di giunchi. Già gli antichi ritenevano e le maggior parte degli studiosi moderni concorda che questa cerimonia, il cui autentico significato rimane oscuro, fosse il surrogato di un sacrificio umano praticato annualmente in un’età più remota. Oggi che la contrapposizione tra barbarie e civiltà sembra tornata di moda, possiamo trarre, da questo argomento, anche una lezione di “correttezza politica”. Per molto tempo, gli storici moderni hanno ritenuto che il sacrificio umano fosse un fenomeno più consono all’Oriente “crudele” che al “civile” Occidente dei Greci e dei Romani: i Fenici, si ripeteva, amavano gettare nel fuoco grandi numeri di bambini per placare le loro mostruose divinità. Le notizie di alcune fonti antiche avverse ai Fenici sembravano confermate dagli scavi archeologici, che portavano alla luce i resti di molti bambini sepolti in appositi cimiteri punici. Oggi si ritiene che quei cimiteri riflettessero, probabilmente, una cura particolare per la sepoltura delle creature morte prematuramente. La Roma arcaica sembra invece punteggiarsi di sepolture strane, che evocando la barbarie del sacrificio umano ci ricordano tutta la faziosità dell’etnocentrismo.
Fonte: ilmessaggero.caltanet.it
Connessioni tra sepolture umane anomale, interpretate come testimonianze di sacrifici, e le fasi di strutture che segnano trasformazioni importanti nella storia della Roma arcaica, emergono anche in altre aree recentemente esplorate. Si tratta di un fenomeno destinato a suscitare, da un lato, l’interesse e le polemiche degli specialisti, per le ipotesi che possono trarsi da quelle connessioni, dall’altro, la curiosità di un pubblico più largo, attratto dalla luce selvaggia e “primitiva” che la pratica del sacrificio umano proietta inevitabilmente sulla storia della “civilissima” Roma.
Il fenomeno appariva scabroso già agli antichi, che cercarono spesso di rimuoverlo o di normalizzarlo. Ma tra le pieghe delle fonti emerge con chiarezza che a Roma, come in quasi tutte le società antiche, l’uccisione di esseri umani era considerata un rito utile a placare gli dei. Si ha l’impressione che a una prima fase, in cui i sacrifici umani dovevano essere una pratica stabilmente incardinata nella religiosità civica, sia seguita una seconda fase, in cui a essa si ricorreva in momenti ritenuti particolarmente gravi per la vita della comunità. Era questo il caso del celebre sacrificio di una coppia di Greci e di una coppia di Galli, sepolti vivi nel Foro Boario. Il turbamento degli autori antichi è evidente nel racconto di Livio, che sente il bisogno di precisare che quel sacrificio era una pratica aliena dalla religiosità romana. Aveva evidentemente torto, visto che Plinio il Vecchio, pochi anni dopo, poteva affermare che le sepolture rituali di esseri umani erano un’esperienza che i Romani ripetevano ormai da 830 anni, vale a dire fin dai tempi della fondazione della loro città. Seppellire una coppia (maschio e femmina) significava propiziare lo sterminio rituale della stirpe che la coppia rappresentava. Il seppellimento di coppie di Galli e di Greci avrebbe dovuto quindi provocare l’annientamento di popolazioni ritenute pericolose per la sicurezza della “terra Italia”. Il sacrificio rimandava quindi a un’idea ristretta del territorio italico, in quanto non ancora circoscritto dalle Alpi, ma dagli Appennini: al di là degli Appennini si trovavano appunto Galli e Greci.
Alla metà di maggio, i Romani si recavano in processione al ponte Sublicio, dove le Vestali, con un rito solenne, gettavano nel Tevere 27 fantocci di giunchi. Già gli antichi ritenevano e le maggior parte degli studiosi moderni concorda che questa cerimonia, il cui autentico significato rimane oscuro, fosse il surrogato di un sacrificio umano praticato annualmente in un’età più remota. Oggi che la contrapposizione tra barbarie e civiltà sembra tornata di moda, possiamo trarre, da questo argomento, anche una lezione di “correttezza politica”. Per molto tempo, gli storici moderni hanno ritenuto che il sacrificio umano fosse un fenomeno più consono all’Oriente “crudele” che al “civile” Occidente dei Greci e dei Romani: i Fenici, si ripeteva, amavano gettare nel fuoco grandi numeri di bambini per placare le loro mostruose divinità. Le notizie di alcune fonti antiche avverse ai Fenici sembravano confermate dagli scavi archeologici, che portavano alla luce i resti di molti bambini sepolti in appositi cimiteri punici. Oggi si ritiene che quei cimiteri riflettessero, probabilmente, una cura particolare per la sepoltura delle creature morte prematuramente. La Roma arcaica sembra invece punteggiarsi di sepolture strane, che evocando la barbarie del sacrificio umano ci ricordano tutta la faziosità dell’etnocentrismo.
Fonte: ilmessaggero.caltanet.it
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