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EBRAISMO E ANTISEMITISMO

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EBRAISMO E ANTISEMITISMO Empty EBRAISMO E ANTISEMITISMO

Messaggio Da Angelodiluce Dom Mag 02, 2010 3:16 am

Quando si affronta il problema dell'antisemitismo, ci si dovrebbe sempre chiedere: è possibile che l'ebreo non sia in alcun modo responsabile di questo fanatico pregiudizio?
Che l'ebreo venga considerato come un capro espiatorio per delle frustrazioni che nulla hanno a che vedere con l'ebraismo, è cosa evidente, ancorché ripugnante.
Ma perché prendersela ancora con gli ebrei dopo duemila anni di persecuzioni?
Anche quando vi sono altre popolazioni da usare come pretesto per occasioni di razzismo, gli ebrei non mancano mai nella lista nera. In Italia, p.es., pur essendo solo 50.000 unità circa, gli ebrei sono soggetti a pregiudizi non meno forti di quelli che subiscono gli immigrati africani.
Probabilmente quando s'inveisce contro un ebreo non si vede in lui una sorta di "individuo singolo" con caratteristiche un po' particolari: quanti sono così senza essere ebrei? quanti conducono una vita abbastanza strana pur facendo parte della società? Ma si pensa a lui come "seguace di una setta", cioè di un collettivo separato dalla società, una sorta di comunità relativamente privilegiata o che tale vuole apparire.
La comunità ebraica viene odiata soprattutto nei momenti di crisi sociale, cioè quando la società (basata sull'antagonismo) soffre di gravi disagi economici.
Nei confronti della comunità ebraica scatta una sorta d'invidia, che da un lato è ammirazione per la capacità che hanno gli ebrei di sopportare le crisi, mentre dall'altro è risentimento proprio a causa di tale capacità, che non può essere condivisa dal non-ebreo.
Nei momenti di crisi sociale vengono a scontrarsi due forme di egoismo: quello individualistico del cittadino borghese e quello corporativo (clanico) del cittadino ebreo (che è poi di estrazione borghese, in prevalenza). L'ebreo, infatti, è condizionato dallo stile di vita borghese imperante nel capitalismo, ma anche dal suo passato di origine clanico-tribale.
Naturalmente qui ci si riferisce a quegli ebrei che fanno del proprio ebraismo un elemento di distinzione e che, essendo legati alla religione, non sanno superare in maniera laico-democratica le contraddizioni del capitalismo.
Un ebreo convinto del valore della propria religione è anche convinto di poter ovviare ai condizionamenti del capitalismo. Si tratta di una pia illusione. E non tanto perché non si possa fare in nome dell'ebraismo una rivoluzione contro il capitale (gli ebrei russi la fecero), quanto perché, non facendola, l'ebraismo ha in realtà ben pochi strumenti per sottrarsi ai condizionamenti del capitale.
Un ebreo che volesse veramente superare il capitalismo, dovrebbe mettere in secondo piano la propria religione, e non tanto perché a un credente, in genere, risulta sempre molto difficile fare scelte rivoluzionarie, quanto perché un qualunque primato politico concesso alla religione porta il credente a isolarsi, tanto più s'egli è di religione ebraica.
Un ebreo integrista è destinato a essere odiato dalla piccola borghesia non ebraica o dalla stessa classe operaia, che, se non organizzati da partiti o sindacati, soffrono maggiormente le contraddizioni del capitalismo.
L'ebreo rischia di essere sempre perseguitato se al cospetto delle crisi capitalistiche cercherà di superarle solo e in quanto appartenente a una religione particolare. Lo stesso può dirsi di qualunque altro seguace di sette religiose.
L'ebreo (come ogni altro credente minoritario) fa bene a chiedere il diritto al rispetto della propria religione, ma se fa di tale religione, nei momenti di crisi sociale generale, il pretesto per separarsi dalla collettività, non può poi sostenere di non avere alcuna responsabilità (neppure indiretta) riguardo alla formazione dei movimenti antisemiti.
Va comunque nettamente ostacolata l'idea -sostenuta per molto tempo dalla chiesa cattolica- secondo cui l'ebreo merita d'essere discriminato in quanto "deicida".
Nei vangeli, con cui i cristiani hanno cercato una legittimazione agli occhi del potere romano, l'antisemitismo è molto accentuato, ma a una lettura non confessionale ci si rende facilmente conto come il popolo ebraico non rappresenti altro, in quei racconti, che il simbolo del popolo in generale.
FASCISMO, NAZISMO E ANTISEMITISMO

Normalmente gli storici del fascismo sostengono che in Italia l'antisemitismo fu ben poca cosa rispetto a quello nazista, e che anzi da noi prese piede solo dopo che Mussolini divenne un burattino nelle mani di Hitler. Questo perché gli italiani non sono mai stati antisemiti, psicologicamente parlando.
In realtà, l'antisemitismo ebbe un grande successo in Germania solo perché, essendo qui dominante il protestantesimo, cioè l'individualismo religioso, il nazismo aveva bisogno di un collante culturale che unisse la nazione.
In Italia questo collante c'era già, ed era appunto costituito dal cattolicesimo romano. Il cittadino fascista era antisemita semplicemente in quanto cattolico: non aveva bisogno di un antisemitismo particolarmente fanatico e aggressivo.
Il credente cattolico è da sempre antisemita, almeno in Europa occidentale, mentre in quella orientale certamente lo è stato il credente russo ortodosso, che non a caso di tutti i credenti ortodossi fu quello che subì maggiormente le influenze dalle tradizioni euro-occidentali. L'antisemitismo diventa nel cattolico tanto più forte quanto più egli non riesce ad accettare che il progresso del laicismo permetta anche agli ebrei di emanciparsi sotto ogni punto di vista.
* * *

Gli ebrei si sono mai chiesti il motivo per cui i nazisti fossero convinti che lo sterminio nei lager non avrebbe causato particolari fastidi in Europa occidentale? Cioè si sono mai chiesti il motivo per cui anche quando cominciò ad essere chiaro che i lager erano campi di sterminio, nessuno sollevò energiche proteste contro questo genocidio?
Gli ebrei si sono mai chiesti il motivo per cui risultavano così odiati non solo dai nazisti, ma anche dai cattolici e dai protestanti di tutti i paesi europei? Hanno mai pensato alla possibilità di fare almeno un minimo di autocritica, oppure hanno preferito pensare che a causa della persecuzione subìta essi non avessero alcun motivo per farla?
Gli ebrei hanno mai capito che più importante del loro genocidio era quello degli slavi comunisti? Hanno mai capito che il loro genocidio per motivi razziali era solo un pretesto per espropriarli di tutti i loro beni? e che il vero odio ideologico i nazisti lo nutrivano non verso di loro, bensì verso i comunisti sovietici e i socialcomunisti in generale? E che l'odio ideologico antisemitico dipendeva soltanto dal fatto che, a causa del loro spirito di corpo, gli ebrei venivano equiparati ai comunisti?
Gli ebrei hanno mai capito che il loro sterminio era in realtà solo una tappa verso il più imponente sterminio dei russi? Possibile che non abbiano mai capito che gli angloamericani non fecero nulla per impedire la shoah non tanto perché anche loro, in fondo, erano antisemiti, quanto perché erano soprattutto anticomunisti e, dovendo scegliere tra Stalin e Hitler, preferivano quest'ultimo, nella convinzione che, finita la guerra, avrebbero potuto trattare secondo le regole dell'imperialismo borghese?
Gli ebrei hanno sopravvalutato la loro importanza e gli occidentali, finita la guerra, gliel'hanno permesso, proprio per evitare di dover rendere conto al sacrificio di 27 milioni di sovietici, e anche al loro eroismo e alla loro superiorità militare, poiché senza di loro gli angloamericani non sarebbero mai intervenuti in Europa e, se anche lo avessero fatto, ne sarebbero usciti sconfitti.
MARX E LA QUESTIONE EBRAICA

Nella Questione ebraica Marx voleva mettere in evidenza che normalmente l'ebreo, concependosi come "errante", cioè costretto alla diaspora ma pur sempre desideroso di avere una nazione in cui vivere come "ebreo", non può essere considerato dai cittadini delle nazioni in cui vive che come una persona "anomala", non del tutto integrata.
Gli Stati non possono fidarsi di lui e lui, non potendo fruire di tutti i diritti dei normali cittadini, è costretto a dotarsi di una certa autonomia finanziaria, onde poter gestire con relativa sicurezza la propria diversità. Cause ed effetti finiscono col confondersi.
Il giovane Marx nella Questione ebraica non aveva riproposto uno stereotipo antiebraico classico, più di quanto tale stereotipo non rispecchiasse una situazione tutto sommato realistica.
Non si può essere considerati antisemiti quando, dipingendo l'ebreo come uno Shylock shakespeariano, si fa chiaramente capire che in tale condizione l'ebreo era costretto o indotto sia dalla propria ideologia politico-religiosa che dagli atteggiamenti diffidenti degli Stati cristiano-borghesi.
Se all'ebreo fossero stati concessi gli stessi diritti degli altri cittadini, molto probabilmente, vinto dalla progressiva laicizzazione dei costumi e della morale pubblica, egli avrebbe considerato la propria ideologia politico-religiosa in maniera più distaccata, meno integrista, e forse col tempo vi avrebbe rinunciato del tutto.
La posizione di Bauer, con cui Marx discute, in fondo era questa: "se gli ebrei rinunciano all'integrismo lo Stato può rinunciare alle discriminazioni". Al che Marx obiettava: "se anche ciò avvenisse, non si risolverebbe il problema delle contraddizioni tipiche del capitale".
In altre parole, Marx giustamente sosteneva che la concessione dei diritti politici agli ebrei non li avrebbe certo di per sé portati a rifiutare la logica del profitto. Essi infatti -diceva Marx- non hanno fatto altro che adeguarsi alla prassi esistente negli Stati borghesi, che di "democratico" ha solo le apparenze politiche.
Là dove Bauer aveva individuato una contraddizione politica fra i principi della democrazia borghese e i privilegi concessi al cristianesimo, Marx aveva invece cercato di dimostrare che all'origine di tale contraddizione vi era una causa sociale strettamente connessa a una divisione della società in classi antagonistiche. Il problema quindi non era tanto quello di riconoscere un diritto alla religione, quanto piuttosto quello di affermare un'emancipazione umana.
Posta la questione in termini così radicali sarebbe stato difficile per Marx perorare una causa giuspolitica (quella di Bauer, a favore dei diritti politici degli ebrei) senza nel contempo trasformarla in una rivendicazione che rovesciasse i rapporti sociali esistenti di tutti i cittadini.
Il giovane Marx non avrebbe mai lottato politicamente a fianco di Bauer se questi non avesse accettato, in via preliminare, il primato dell'emancipazione umana.
Fu un grave errore tattico pensare che se gli ebrei avessero raggiunto l'emancipazione umana, cioè sociale, avrebbero potuto tranquillamente fare a meno di quella politica, che vi sarebbe già stata inclusa.
L'idea di credere possibile una graduale comprensione dell'importanza dell'emancipazione umana anche a partire da una progressiva emancipazione politica, rivendicata in ambiti istituzionali e non, maturò solo col leninismo e solo in maniera embrionale.
Sarà poi compito del gramscismo dimostrare che oltre alla lotta giuspolitica e socioeconomica vi è anche quella di tipo culturale.
Se il marxismo occidentale non fosse stato così unilaterale forse non sarebbe scoppiato nella Germania nazista un genocidio di così vaste proporzioni. L'opinione pubblica tedesca infatti doveva essere sufficientemente convinta che l'atteggiamento sociale degli ebrei era nel complesso "antisociale" e questo pregiudizio è stato possibile proprio in virtù del fatto che le rivendicazioni giuspolitiche degli ebrei non erano mai state prese in debita considerazione.
Se Marx e il marxismo occidentale fossero andati incontro alle tesi di Bauer, probabilmente la borghesia tedesca avrebbe trovato maggiori difficoltà a scaricare sugli ebrei le cause delle contraddizioni sociali del capitalismo. Anzi, considerando che la borghesia ebraica non era che un'infima minoranza di quella tedesca, forse quest'ultima avrebbe potuto trovare in quella un appoggio per sviluppare la democrazia parlamentare o per contrastare le borghesie degli altri Stati europei, al massimo un alleato contro il proletariato nazionale, certo non un nemico da distruggere completamente.
ENGELS E L'ANTISEMITISMO

Engels pubblicò nel 1890 su un giornale socialdemocratico di Vienna una lettera contro l'antisemitismo, sostenendo le seguenti tesi:
1. l'antisemitismo è una reazione di ceti sociali medievali votati alla rovina dall'avanzare del capitalismo (la piccola borghesia o la piccola nobiltà di estrazione cattolica o protestante);
2. con esso si perseguono obiettivi reazionari sotto una copertura di apparente socialismo (in quanto "socialismo corporativo"), nel senso che le classi feudali criticano sì la grande borghesia, ma temono anche il proletariato industriale;
3. conclusione: per eliminare l'antisemitismo basta sviluppare il capitalismo, che porterà inevitabilmente alla morte tutti quei ceti e quelle classi che non si riconoscono nella grande contrapposizione di capitale e lavoro salariato.
Ora, che dire di queste tesi?
Se si astraesse da qualunque considerazione storica sull'autore che le ha formulate, rinunciando quindi a contestualizzarle debitamente, si rimarrebbe nel dubbio se attribuire loro una buona dose di disarmante ingenuità o di calcolato cinismo.
Oggi per fortuna la storia è in grado di venire in nostro soccorso dimostrando a chiare lettere il valore esattamente opposto di quelle tesi.
E cioè che, in sostanza:
1. l'antisemitismo può formarsi anche nelle società capitalistiche avanzate, poiché non è detto che il proletariato sia di per sé consapevole che la contraddizione principale è quella di capitale e lavoro e che l'unico modo di risolverla sia quello della rivoluzione politica, sociale e culturale.
2. Non è affatto vero che un forte sviluppo del capitalismo porti automaticamente a una forte organizzazione del proletariato o che comunque in questa organizzazione il proletariato manifesti intenzioni rivoluzionarie.
3. Con la nascita dell'imperialismo il capitalismo occidentale ha polarizzato il conflitto sociale non tanto al proprio interno (tra capitale e lavoro) quanto al proprio esterno (tra metropoli occidentale e periferia coloniale), in modo tale che nell'ambito della metropoli hanno potuto continuare a sopravvivere e anzi a svilupparsi ulteriormente tutti quei ceti medi, impiegatizi e piccolo-borghesi che non si riconoscono nelle idee del proletariato industriale più consapevole (anche se oggi questa differenza sociale sussiste pochissimo, in quanto il proletariato industriale s'è allineato alla concezione borghese della vita, come già Lenin, con molto acume, aveva potuto constatare).
4. Nella lotta anticapitalista e antimperialista il proletariato industriale della metropoli ha bisogno non solo dell'appoggio del proletariato delle colonie, ma anche di quello dei ceti medi metropolitani, che sul piano oggettivo della condizione sociale non sempre sono garantiti più degli operai (oggi anzi si può dire che tutto il ceto impiegatizio di medio e basso livello, ivi inclusi gli insegnanti non universitari, altro non è che una sorta di proletariato intellettuale).
5. In tal senso non occorre davvero attendere che il capitalismo si sviluppi al massimo prima di poter avere un forte proletariato, anche perché un capitalismo molto forte facilmente genera corruzione nell'ambito dello stesso proletariato e soprattutto dei leaders che lo organizzano.
6. Il proletariato dovrebbe combattere il capitalismo appena prende consapevolezza delle radici storiche della propria condizione sociale oppressiva e, nel fare questo, dovrebbe cercare alleanze anche fra i ceti che subiscono le contraddizioni del capitale in maniera indiretta, cioè non immediatamente connessa alla produzione industriale vera e propria.
7. Oggi il proletariato industriale dell'Occidente ha consapevolezza che le contraddizioni del capitalismo dipendono soprattutto dal conflitto tra capitale e lavoro, ma, poiché tale proletariato, in virtù dell'imperialismo, fruisce di un relativo benessere, di fatto non ha interesse ad approfondire tale consapevolezza, né, tanto meno, ha la volontà politica di tradurla in azioni eversive (nel migliore dei casi si limita a una lotta di tipo sindacale, nel peggiore a compiere azioni terroristiche).
8. Viceversa, il proletariato industriale delle colonie, che pur avrebbe la forza morale e motivazioni oggettive ancora più esplicite per opporsi al capitalismo indigeno e importato, in quanto si trova spesso a vivere un'esistenza sub-umana, non ha ancora consapevolezza politica dell'importanza del proprio ruolo e non ha grandi capacità organizzative, per cui tende anch'esso a limitarsi ad azioni di tipo sindacale. Nel peggiore dei casi si ha il reclutamento del sottoproletariato in milizie o forze armate senza scrupoli, in gruppi eversivi votati al terrorismo, in bande dedite alla criminalità organizzata, quando non si formano masse disperate che cercano nell'emigrazione una valvola di sfogo a problemi più grandi di loro.
BEBEL E L'ANTISEMITISMO

Nel discorso pronunciato da A. Bebel al IV Congresso del partito socialdemocratico tedesco, nel 1893, c'è un punto su cui oggi la sinistra ha le idee più chiare.
Bebel infatti considerava "reazionarie" le rivendicazioni anticapitalistiche dei ceti medi, in quanto questi -a suo giudizio- non solo confondono lo sfruttamento generale del capitalismo con quello particolare degli ebrei capitalisti, ma anche perché desiderano tornare al Medioevo delle corporazioni.
Bebel cioè riteneva (come tutto il marxismo occidentale di fine Ottocento) che lo sviluppo capitalistico (quale "evoluzione naturale della società") fosse necessario in una società feudale votata al crollo. Egli, in sostanza, riteneva che il socialismo avrebbe potuto "liberare" i contadini solo dopo lo sviluppo e il crollo del capitalismo.
In tal modo, com'è noto, la socialdemocrazia tedesca non riuscì mai a ottenere il consenso delle masse contadine né in funzione anticapitalistica né in funzione antifeudale.
E' stato dunque un madornale errore ritenere che lo sviluppo del capitalismo fosse una conseguenza necessaria degli irrisolti antagonismi feudali.
Il populismo e il bolscevismo infatti s'incaricheranno di dimostrare che esisteva la possibilità di saltare la fase del capitalismo proponendo ai contadini una riforma agraria di tipo socialista, con cui poter realizzare la democrazia politica e sociale anzitutto nelle campagne (populismo) o anzitutto nelle città (bolscevismo), impedendo così all'industria di svilupparsi in forza del lavoro salariato di quei contadini fuggiti dalle campagne. (Come noto tuttavia il bolscevismo post-leninista andò in ben altra direzione).
In altre parole, l'industrializzazione sarebbe ugualmente potuta avvenire, ma senza lo sfruttamento degli operai, senza l'espropriazione dei contadini, nel senso che la scelta di un contadino di diventare operaio sarebbe stata libera e non dettata dalla miseria, e comunque non vi sarebbe stata una divisione così estrema del lavoro e in definitiva non si sarebbe sacrificato il primato economico dell'agricoltura.
E' curioso come qui Bebel ripeta una tesi cara ai classici del marxismo occidentale, secondo cui l'acuirsi delle contraddizioni sociali porta inevitabilmente ad assumere una consapevolezza rivoluzionaria (anche il maoismo è caratterizzato da questo limite).
In tal senso Bebel riteneva che anche l'antisemitismo avrebbe assunto, suo malgrado, un "ruolo rivoluzionario", in quanto gli strati sociali piccolo-borghesi e contadini, convinti inizialmente che il loro unico nemico fosse l'ebreo capitalista, alla fine si sarebbero resi conto, a proprie spese, che in realtà il nemico era il capitale qua talis.
Tuttavia, perché non chiedersi a che prezzo essi si sarebbero resi conto di questa oggettiva verità? E se pur di non volersene rendere conto essi fossero stati disposti ad accettare qualunque condizione? Non è forse nato così il nazismo? Non sono forse ridicole, in tal senso, le parole di Bebel quando dice: "L'unica cosa che ci permette di consolarci è la sicurezza che in Germania l'antisemitismo non riuscirà mai ad avere un qualche influsso anche pratico sulla vita sociale e statale del paese"?
Probabilmente se il marxismo occidentale non avesse nutrito forti pregiudizi nei confronti dei contadini (e della loro religione cristiana), avrebbe sicuramente indirizzato di più i propri sforzi verso la costruzione di una democrazia nell'ambito del mondo rurale, chiedendo alle masse contadine di lottare contemporaneamente e contro il tardo-feudalesimo e contro il nascente capitalismo.
Non comportandosi così, la socialdemocrazia sembrava opporsi all'antisemitismo solo perché in fondo sperava che il capitalismo ebraico, insieme a quello cristiano, mandassero in rovina le ultime vestigia del feudalesimo nobiliare.
Né vale a scongiurare questo sospetto il fatto che la socialdemocrazia, per bocca di Bebel, cercasse di dimostrare come nelle campagne il socialismo fosse impossibile da realizzare proprio a causa dell'ignoranza dei contadini, ignari del fatto che il loro principale nemico non era tanto il capitalista ebreo quanto il nobile feudatario e il capitalista sensu lato, che praticamente li avevano spogliati della loro proprietà trasformandoli in operai salariati o al massimo in mezzadri.
I contadini della Russia e della Cina, sicuramente molto più arretrati e ignoranti di quelli tedeschi, riuscirono nel loro intento, anche se poi furono strumentalizzati da un'intellighenzia senza scrupoli.
APPUNTI DI STORIA

1. Nell'età antica e medievale spesso accadeva che gruppi di ebrei, a causa di pregiudizi dominanti, preferissero concentrarsi volontariamente in zone particolari delle città.
2. Le prime discriminazioni, per motivi ideologici, risalgono agli inizi del IV sec. e proseguono sino alla fine della II Guerra Mondiale. Divieto di matrimonio, di convivenza, di pasto coi cristiani; di rivestire funzioni pubbliche, di insegnare, di possedere la terra, di fare i mediatori in qualsivoglia negoziato, di testimoniare a carico dei cristiani nei tribunali, di costruire sinagoghe, di consultare medici ebrei da parte dei cristiani. Obbligo di portare segni di riconoscimento sugli abiti, di vivere nei ghetti ecc. Praticamente agli ebrei restavano solo forme marginali di commercio e finanza (considerate indegne dai cristiani) o illecite (usura).
3. La tendenza a isolare gli ebrei da parte delle istituzioni cristiane si manifesta soprattutto a partire dal Mille, in tutta Europa. I primi pogrom (eccidi di massa) appaiono in occasione delle Crociate.
4. Il primo ghetto (concentrazione forzata) appare a Venezia nel 1516. La chiesa cattolica sancisce tale istituzione nel 1555.
5. I ghetti vengono aboliti a partire dalla Rivoluzione francese, ma col caso Dreyfus (1894) l'antisemitismo riesplode proprio in Francia, finché il nazismo ripristina i ghetti e inaugura i campi di sterminio.
6. A partire dal Concilio Vaticano II la chiesa cattolica rimuove l'accusa di deicidio (rivolta agli ebrei per aver ucciso il Cristo) e la tesi della colpa ereditaria collettiva per questo crimine.
CHE COS'E' IL SIONISMO?

1. Movimento politico-religioso sorto nel 1897, grazie soprattutto all'attività di un ebreo di origine ungherese, Teodoro Herzl, il quale voleva ricostituire in Palestina uno Stato che accogliesse tutti gli ebrei sparsi nel mondo e desiderosi di ritornare a Sion (collina di Gerusalemme), dopo la lunghissima diaspora iniziata nel 70 d.C. con la distruzione di Gerusalemme ad opera dei romani.
2. L'idea di ricostruire uno Stato ebraico in Medio Oriente piaceva a Francia e Inghilterra, poiché col trattato di Sykes-Picot esse avevano tradito le promesse di indipendenza nazionale fatte ai paesi arabi che avevano combattuto al loro fianco contro l'impero ottomano e la Germania che l'appoggiava, nel corso della I guerra mondiale.
3. Alla fine della II G.M., sull'ondata dello sdegno per i 6 milioni di ebrei uccisi dai nazisti, il movimento riuscì a portare davanti alle Nazioni Unite la questione della nascita di uno Stato d'Israele, che poi avvenne nel 1948. All'appello rispose una minoranza del mondo ebraico.
4. Gli Stati arabi non accettano l'idea dello Stato ebraico: nasce così la guerra arabo-israeliana. Vittima principale: il popolo palestinese (di religione islamica), che si vede espropriato della terra, soggetto a sfruttamento e costretto all'esilio. Di qui l'antisionismo, che a volte, arbitrariamente, si trasforma in antisemitismo.
STEREOTIPI E PREGIUDIZI ANTISEMITI

A) Di tipo generico: egoista, usuraio, avaro, spia, non dà garanzie scientifiche, corruttore sessuale, senza ideali, materialista, cinico, bugiardo, infido, vendicativo, sfrutta il popolo che lo ospita, fanatico, assassino, disprezza i non-ebrei, rifiuta la legge del Paese in cui vive, si autoghettizza...
B) Di tipo religioso: il Vecchio Testamento insegna la vendetta, Javhé sterminatore, orgoglio di sentirsi "popolo eletto" (razzismo inventato dagli ebrei), odiano i non-ebrei, sono la causa di tutte le eresie cristiane, dell'ateismo, del materialismo e del comunismo, deicidi (condannati da Gesù a errare per il mondo), ereditarietà della colpa, omicidio rituale di bambini...
C) Di tipo razziale-razzista: (nato nel sec. XIX; sostituisce quelli di tipo religioso; si ricorre a motivazioni pseudo-scientifiche). Somatico (p.es. naso aquilino) e Razzista (p.es. civiltà ariana superiore a quella semitica: in questo caso ebraismo e cristianesimo coincidono).
D) Di tipo politico-economico: vogliono dominare il mondo, fomentano le rivoluzioni, si servono della Massoneria, sono causa di tutte le guerre, dominano la finanza...
ANTISEMITISMO CATTOLICO

1. Il testo liturgico della preghiera del Venerdì Santo conteneva, fino al 1959, l'espressione "pro perfidis Judaeis".
2. Nel Concilio Vaticano II la dichiarazione Nostra Aetate (1965) rimosse due antichi pregiudizi teologici: l'accusa di deicidio e la tesi della colpa ereditaria collettiva.
3. Tuttavia, anche dopo questa enciclica, vi è stato chi ha sostenuto che se non si possono condannare gli ebrei in quanto "uomini", vanno però condannati in quanto "istituzione religiosa", dal momento che accettano la cultura e la religione ebraica. Tale distinzione, per un ebreo, è un ovvio controsenso.
4. Un tema che il suddetto Concilio non ha chiaramente affrontato e risolto è quello della netta opposizione che i cattolici pongono tra "Israele secondo la carne" (identificato con l'Ebraismo ufficiale) e "Israele secondo lo spirito" (identificato col nuovo o Verus Israel, che costituirebbe una prefigurazione del cristianesimo).

4.1. La condizione religiosa ebraica attuale viene considerata dai cattolici, come un residuo destinato a testimoniare un "mistero di Israele" che gli ebrei non saranno mai in grado di capire, finché resteranno ebrei. L'odierno ebreo è equiparato al fariseo ostile a Gesù: quindi è difficile pensare alla possibilità di un dialogo paritetico a livello ecumenico tra cattolici ed ebrei.
4.2. Se l'Ebraismo, per i cattolici, ha concluso la propria missione religiosa, è impensabile, per un cattolico, che gli ebrei possano restare veramente "fedeli" al patto veterotestamentario. L'unica fedeltà possibile è quella cristiana. In sostanza, i cattolici agli ebrei la legittimità di un permanente significato spirituale della loro religione (vedi invece Rm 11,2.28-29; 9,3-4).
4.3. P.es. i cattolici, identificando l'Ebraismo con la "religione del timore", negano, con ciò stesso, la possibilità che in tale religione possa essere presente la legge dell'amore. Ancora oggi è difficile superare il pregiudizio secondo cui Ebraismo coincide con materialismo volgare.
5. Spesso -anche da parte della sinistra cattolica- si tende a scivolare su posizioni antisemite pur partendo da posizioni antisioniste.
6. Nel 1938 Pio XI dichiarò la matrice semitica della condizione cristiana. L'Osservatore Romano era forse l'unico giornale ammesso dal regime che poteva prendere le distanze dalle Leggi razziali.
TRADIZIONALI STEREOTIPI CATTOLICI ANTISEMITI

1. Ebreo = Anticristo (o comunque = Eretico), causa di tutte le eresie anticristiane, nonché causa dell'ateismo e del comunismo. (Sinagoga di Satana)
2. Religiosamente retrivi, in quanto pieni di superstizioni, fondano il concetto di santità sul possesso di beni terreni, predicano un dio (biblico) vendicativo, geloso, sterminatore, genocida. Nell'antichità praticavano il sacrificio dei bambini, di cui bevevano il sangue.
3. Sono razzisti perché predicano il concetto di "popolo eletto" e insegnano il disprezzo dei non-ebrei.
4. Deicidi per aver ucciso il Cristo, che li ha condannati a errare per il mondo e a trasmettersi la colpa per via ereditaria.
COME SUPERARE I PREGIUDIZI ANTISEMITI


  1. Per superare questi pregiudizi bisogna anzitutto lottare contro i pregiudizi in generale?
  2. Quando esistono dei pregiudizi antisemiti, chi deve fare il primo passo per superarli: l'ebreo o il non-ebreo? cioè la comunità minoritaria o quella maggioritaria?
  3. Superare i pregiudizi significa che l'ebreo deve rinunciare alla propria identità e diventare come il modello di non-ebreo che domina nel Paese in cui entrambi vivono?
  4. Cosa significa "integrazione di culture diverse"? Ogni cultura deve rinunciare a qualcosa di proprio, per poter acquisire qualcosa dalle altre?
  5. E' giusto per l'ebreo rivendicare qualcosa "in quanto ebreo"? (p.es. il Sabato festivo)
  6. E' giusto che i non-ebrei, solo perché maggioritari, neghino qualcosa agli ebrei?
  7. Tra ebrei e non-ebrei è più facile l'intesa su quale piano: religioso, culturale, etnico, linguistico, politico, socio-economico?
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